Da Camerata Nuova a quella Vecchia passando per il rifugio di Camposecco

Fino alla piana di Camposecco, dove aleggia ancora lo spirito di Bud.
Una lunga facile passeggiata carica di spunti e significati. A cavallo tra Simbruini e Carseolani e tra Lazio ed Abruzzo. Ricordando le scene di "Lo chiamavano Trinità", emozionandosi davanti ai ruderi di un borgo che nacque 1000 anni fa e abbandonato solo di recente (quasi); compagna assidua e introspettiva è la natura, con i dolci profili dei Simbruini che ci accompagnano dall'inizio alla fine.


Ritorniamo sui Simbruini, stesso quadrante Nord-Ovest, un paio di dorsali più a Nord rispetto all’escursione che facemmo ad inizio anno; allora abbiamo conosciuto monte Calvo, le piane di Campaegli e Campobuffone e abbiamo chiuso con un po’ di turismo a Cervara di Roma, oggi ci concentreremo sulla piana di Camposecco, il monte Camposecco e la sua dorsale per chiudere con la visita ai ruderi di Camerata Vecchia, suggestiva ed emozionante testimonianza che ci viene lasciata in eredità da una storia antica 1000 anni. Dal casello autostradale di Carsoli seguiamo le indicazioni lungo la provinciale della piana del Cavaliere per Rocca di Botte e Camerata Nuova, quasi le otto della mattina, fuori ci sono bei -6°, i campi sono imbiancati di ghiaccio e brina; dietro i vetri appannati ci godiamo ancora per qualche istante il calduccio dell’abitacolo, siamo carichi e impazienti come tutte le volte che davanti si ha un territorio nuovo; è strano anche a me, in tanti anni tra queste montagne di confine tra Lazio e ed Abruzzo e tra Simbruini e Carseolani non ci siamo mai avventurati. Raggiungiamo Camerata Nuova che in giro non c’è anima viva, anche il bar è chiuso, sono le 8 della mattina, centocinquanta metri prima della piazza del paese (indicazioni dei sentieri all’angolo) sulla destra si stacca una traversa che va seguita per circa un chilometro in salita fino a raggiungere un evidentissimo fontanile con una tavolo pic-nic lì accanto; più avanti c’è posto per parcheggiare ma è preferibile e più corretto fermarsi qui. Attiguo al parcheggio corre la strada asfaltata da cui siamo arrivati, la riprendiamo a piedi, c’è già una prima palina con le indicazioni dei sentieri, non mancheranno mai lungo il percorso. A poche centinaia di metri, al primo incrocio, si ignora la sterrata che sale davanti in salita e ci si tiene a sinistra sempre sulla strada asfaltata; al vicino successivo incrocio si tralascia una strada che a sinistra entra in un quartiere periferico di Camerata e si continua su quella principale fino ad incontrare un ulteriore incrocio nei pressi di un ponticello (possibilità di parcheggio), si mantiene ancora la strada principale (poco dopo a sinistra la strada si inoltra in un’area privata); a poche centinaia di metri l’ultimo incrocio, termina l’asfalto (+20 min. dalla partenza), una palina sancisce l’inizio dei sentieri. A sinistra (curva a gomito), parte il sentiero da cui torneremo, molto ripido e che sale direttamente a Camerata Vecchia; davanti l’ampia sterrata (sent. N°664b/664c) sale con leggero dislivello tra la boscaglia direzione piana di Camposecco, segue per un bel tratto e sempre in leggera salita il letto di fosso Luisa, boscaglia ai lati e molti i segnali bianco rossi sugli alberi. Si supera un paio di volte il letto del fosso fino a che sulla sinistra, bandierina bianco rossa sul un grosso faggio (+20 min.), non si inizia a salire con pendenza più accentuata; qualche tornante e lunghi traversi, si guadagna dislivello, si sentono ogni tanto dalla parte opposta della valle il rumore di poche auto che salgono sulla strada brecciata che viene da Camerata; tra uno spiraglio e l’altro riusciamo anche ad intravedere sullo sperone calcareo che domina Camerata Nuova i ruderi di alcuni muri di quella vecchia, ci tornerà utile sulla via del rientro per la localizzazione del borgo. Al termine di un ripido traverso, nei pressi di un muretto di contenimento, si intercetta la strada (+30 min.); il muretto sostiene un piccolo slargo a fianco della strada stessa con affaccio su Camerata che si intravede tra i rami spogli e ospita una panchina che permette di tirare comodamente il fiato a chi lo desidera. A cinquanta metri dalla panchina, continuando in salita, un’ulteriore palina indica il sentiero in forte pendenza sulla destra, direzione Camposecco. In questo primo frangente è sicuramente il tratto di sentiero più bello, la bassa boscaglia diventa bosco rado, i faggi si fanno alberi importanti e anche la traccia è più marcata, i segnavia bianco rossi rimangono fin troppo puntuali; il traverso punta una ampia sella boscosa, se ne intuisce la presenza sui profili spogli dei faggi sfiorati dai raggi del sole, i colori si vanno scaldando. Prima del valico si tocca una palina (+ 25 min. dalla strada) con indicazione Camerata Vecchia, è data a soli 30 minuti ma contando di visitarla alla chiusura del nostro giro arrivandoci da sopra tralasciamo la deviazione; incontriamo subito in salita uno stretto passaggio, incassato di qualche metro rispetto al piano del bosco, un valico, sembra un fosso quasi, una trentina di metri di pietre sconnesse scavate probabilmente dalla forza dell’acqua che si incanala durante i temporali; ci consegna ad ampie radure, quella che sembrava una sella è a tutti gli effetti un ondulato altipiano, dolci radure, faggi isolati e per questo maestosi, sbalzi di rocce e diverse vallette secondarie gli assegnano un fascino da favola, il sole basso e caldo aiuta a creare una atmosfera speciale. Seguendo i frequenti segnavia si aggirano una serie di dolci avvallamenti e piccole dorsali fino ad arrivare al limite delle Prata e di Piano Iavone, le praterie, qui più strette, che anticipano gli spazi più ampi della piana di Camposecco. Già belle nelle loro linee morbide le coste di Camposecco che ci scorrono a sinistra, salgono lente tra radure e quelle che sembrano essere miniature di tanti piccoli boschi distaccati gli uni dagli altri, al ritorno dovremmo starci nel mezzo. Le Prata e Piano Iavone sono un corridoio nemmeno troppo largo tra le coste di Camposecco e i boschi di colle Faito (un anonimo 1500 mancato di pochi metri) che si alza sulla destra, si allunga per un paio di chilometri verso spazi più ampi, confinati verso Sud da quello che intuisco essere il monte Autore e che è già parte dell’orizzonte; leggeri saliscendi e un manto erboso compatto e morbido, viene voglia di far correre le gambe, camminare è lieve. Sfioriamo diverse profonde doline erbose, più avanti dove la radura si allarga nella piana di Camposecco diventeranno dei piccoli laghetti che prendono il nome di Volubri. Più o meno nel punto dove Colle Faito degrada sulla piana e gli spazi si allargano nella grande piana di Camposecco sorge un fontanile in cemento a quattro vasconi, non è riportato sulla carta dei Simbruini, Ernici occidentali, Carseolani e Affilani delle Ed. Il Lupo che ho con me; la sorgente è secca, ma nelle vasche c’è acqua, lastre di ghiaccio a dire il vero, forse la fonte è congelata per via delle basse temperature. Scorgiamo poco lontano verso la piana un bacino artificiale quadrato, lì accanto un Volubro colmo di acqua, tra le rocce che interrompono la piana un pò più lontano dovrebbe esserci l’imbocco del famoso inghiottitoio di Camposecco, famoso per essere una delle grotte più utilizzate allo scopo didattico dai vari gruppi spelo del Lazio e dell’Abruzzo. Manca all’appello il rifugio, non dovrebbe essere lontano, già un paio di volte superando piccole alture mi sarei aspettato di vederne il profilo; appare sulla destra, a circa trecento metri dal sentiero, un po’ incassato nella piana e per questo nascosto alla vista di chi arriva da Camerata (+ 0,50 min.). Un rifugio in pietra, il tetto è nuovo, sembra ben tenuto, una parte della costruzione ha due livelli, una specie di torretta, al piano terra porte e finestre sono sprangate, sicuramente l’utilizzo è al solo fine agropastorale. Ci sediamo a ridosso del muro, protetti dal vento e baciati dal sole; la quiete è irreale, gli orizzonti vasti e dolci, i profili sempre morbidi tranne verso Ovest dove la piana è interrotta da quelle piccole creste rocciose che corrugano la piana e contengono il famoso inghiottitoio di cui ho già detto. Impossibile non pensare ai cari Bud e Terence, già proprio loro, e ai loro film; su questa piana sono state girate alcune scene del loro primo film che ha dato inizio alla famosa saga, vi ricordate i mormoni presi a sberle? Vi ricordate il turbinio di schiaffoni di “Lo chiamavano Trinità”? Quelle scene sono state girate in questa piccola steppa, una curiosità pari a quella altrettanto famosa delle scene del secondo film “Continuavano a chiamarlo Trinità” girate a Campo Imperatore. Le coste di Camposecco iniziano a salire a poca distanza, la vetta omonima è già facilmente leggibile, si intravedono tracce che con ampi traversi aggirano le gobbe; preferiremo seguire la linea di una leggera dorsale che abbiamo davanti, senza strappi ci porterà facilmente sulla cresta non lontani dalla vetta principale. Le coste di Camposecco sono prevalentemente spoglie, piccole macchie di faggi non riescono a colonizzare il versante, salgono con pendenza graduale e costante, la sua dorsale è il limite della vegetazione che sale dalla boscosa valle accanto, quella del fosso Fioio, gli ultimi faggi raggiungono a mala pena il limite della dorsale. La valle del fosso Fioio è incassata e profonda, la lunga dorsale di Serrasecca si alza sul lato opposto molto più alta e omogenea, per alcuni instanti si fa fatica ad abituarsi a questa sorta di vicino muro che vieta ogni orizzonte verso Nord. Il culmine della dorsale di Serrasecca è Cima Vallevona, almeno 300m. più alta di cima Camposecco, ce l’abbiamo esattamente davanti. Quella dorsale così vicina forma già un altro sistema montuoso, fa parte dei Carseolani, laggiù in fondo scorre il fosso Fioio, il confine tra questi ed il parco dei monti Simbruini, stavo colmando una parte della mia ignoranza di questo pezzo di Appennino, ero eccitato e incuriosito come se stessi salendo su un 3000m. Scorriamo in direzione Nord la cima non è lontana, in bilico tra la piana e la profonda valle, una flebile traccia segue il profilo di cresta, non ci sono segnavia ma la direzione è obbligata. Raggiungiamo la cima di Camposecco, mancano una manciata di metri per toccare i 1500, è una bassa elevazione ma il panorama è davvero superlativo su tutta la piana fino alle sponde boscose del Monte Autore che la chiude. In direzione Sud oltre il già citato monte Autore si distingue la cima del monte Tarino, assolutamente sgombra da neve, tra i due sporge la linea di cresta del monte Viglio, lui leggermente innevato; verso Est una larga piana, quella di Campo Rotondo, sopra le dorsali che lo contengono un altro profilo bianco di neve rimanda a qualche montagna del parco difficile da distinguere. In vetta solo un grosso omino di pietre, due assi di legno ci sono conficcate ma non stanno ad indicare nulla e, viva Dio, non c’è traccia delle solite scritte col pennarello, a conferma che i grafomani non sono degni di “conquistare” le “basse” cime. Ci leggete un amaro sarcasmo? E’ voluto! Ci siamo fatti tradire dal momento meravigliosamente calmo, caldo e piacevole, la sosta è durata molto e forse siamo stati anche lenti per tutta la mattina, si era fatta quasi l’una ed era arrivato il momento di muoversi per il rientro, ci trovavamo poco oltre la metà dell’anello preventivato. Da qui in avanti dovremo un po’ inventare l’escursione, non avremmo più segna via e cartelli di riferimento, non era in discussione la via per scendere e per chiudere l’anello, ma quella per raggiungere le rovine di Camerata Vecchia senza perdere troppo quota; seguendo le linee isometriche sulla carta i ruderi dovevano trovarsi in fondo alla dorsale di Camposecco, sull’ultimo sperone calcareo prima che questa prendesse a precipitare sulla piana del Cavaliere. Dalla cima di Camposecco le linee suggerivano una continua e lenta discesa, sembrava quasi una banalità riuscire a calarsi sui ruderi dall’alto, pareva bastasse seguire la linea di cresta; poi la realtà è stata leggermente diversa. Come molte volte accade le dorsali non hanno continuità, formano valli, si sdoppiano per poi ritrovarsi qualche chilometro dopo, sapendo di dover scendere di quasi 300 metri abbiamo tenuto un costante lento traverso in discesa, Marina ha preso le redini del comando, quando mancano i sentieri e tocca inventarsi lei si diverte da morire, ha anche fiuto in questi casi e a parte qualche momento in cui abbiamo condiviso il da farsi ha condotto le sorti dell’avvicinamento senza tentennare un attimo. E’ stato più difficile superare un tratto ingarbugliato di rovi, rose e meli selvatici, qui la direzione l’ha decisa la natura e gli spazi che aveva lasciato liberi. Lentamente ma con costanza ci siamo abbassati, sapendo che le rovine si trovavano intorno quota 1200 tenevo d’occhio la dorsale principale che ci scorreva alta a destra e l’altimetro che ci poneva ancora circa 100 metri sopra, una sella ancora lontana lasciava intravedere i boschi sopra il fosso Luisa che avevamo percorso la mattina, lo sperone con le rovine non poteva che trovarsi davanti e forse a destra della sella stessa, continuavo a confidare di “atterrare” sui tetti di Camerata Vecchia. Superato il tratto di rovi raggiungiamo con un lungo traverso quasi in piano la sella, anche la dorsale principale si è abbassata e lentamente ci stavamo confluendo di nuovo sopra; con gli orizzonti che si aprivano era più facile leggere il territorio, erano chiare le linee di salita della mattina e quello sperone che chiudeva la dorsale che avevamo davanti sulla destra doveva essere per forza la zona in cui i ruderi erano arroccati. Avvicinandoci allo sperone le uniche a distinguersi erano le pareti verticali, nessuna traccia di ruderi, muri caduti, qualcosa che somigliasse ad un aggregato urbano; memori dell’unico momento in cui la mattina avevamo visto dei resti dell’antico paese ci teniamo un po’ sotto la dorsale con l’obiettivo di arrivare di fianco allo sperone, avevamo la sensazione di esserci ormai ma mancava la presenza tangibile di qualche rovina. Quasi nei pressi dello sperone roccioso, davanti solo di qualche centinaio di metri, Marina trasformata ad una improvvisata Indiana Jones andava spedita continuando a traversare in leggera discesa, sentiva ormai il profumo del successo; scorgo, seminascosto tra la boscaglia verticale sotto di noi, quelli che mi sembravano i resti di un arco, ho pensato ad un muro di cinta tanto mi sembrava alto ed invece avvicinandoci altro non era che una finestra di un muro, resti di una antica costruzione (+ 1,10 ore da cima Camposecco); più nulla intorno, lo spigolo calcareo più avanti e niente altro ma quei resti erano la conferma che dovevamo essere vicini. Sono bastati pochi passi e Camerata Vecchia si è palesata in tutto il suo diroccamento, una palina con i cartelli dei sentieri venti metri più in basso, lì arriva il sentiero da Camposecco con una scalinata in legno protetta da uno steccato e una comoda panchina che anticipa i ruderi; siamo entrati in paese dalla “via” che scorre più alta e parallela a quella dove arriva il sentiero ed è stato chiaro perché i ruderi fossero invisibili fino a pochi metri prima; Camerata Vecchia non è un antico borgo arroccato sulla montagna, Camerata Vecchia è la montagna trasformata in borgo, costruito con la stessa roccia, in parte nella roccia stessa, i muri a secco dello stesso colore dello sperone, quello che fece l’uomo è un tutt’uno con quello che fece Dio; oggi anche più di ieri perchè alberi, rovi, arbusti ed erba si sono contesi il territorio, si sono appropriati delle rovine, le hanno avvolte, ricoperte, dei momenti sembrano sostenerle. E tanto è stato fatto per liberarle dalla vegetazione, bei camminamenti, veri sentieri con tanto di bandierine CAI bianco rosse attraversano l’antico borgo da una parte all’altro; meritevole anche non aver invaso i resti da incastellamenti, supporti ed impalcature che avrebbero deturpato il fascino delle rovine. Poco rimane di questo borgo, molte le case e i muri perimetrali crollati parzialmente o completamente, nella parte centrale del paese qualche perimetro e qualche architettura fa leggere ancora bene l’urbanistica, si intuisce la via che attraversava il paese, intorno molti crolli e poche mura erette. In alto sullo sperone, incastrata tra le rocce l’unica struttura che ha avuto un rinforzo appena intuibile, un ampio muro con una finestrella sono ciò che rimane della chiesa di San Salvatore. Attraversiamo il borgo, salgo sopra lo sperone ma a parte avvicinarmi ai resti della chiesa devo tornare sui miei passi, l’azione di ripulitura non è terminata, rovi e crolli danno la sensazione di stare in un luogo meno sicuro. Ritorno sui miei passi, ripercorriamo indietro la “via” bassa fino alla palina dove arriva il sentiero da Camposecco di cui dicevo ma sulla tabella lì vicino non ci sono i suggerimenti storici che speravo, ripercorriamo di nuovo indietro la “via” bassa, accanto al muro più integro del borgo, accanto a pareti di case dirute incastrate tra gli alberi, non si capisce chi sorregge e cosa, se sono gli alberi ad essersi appoggiati alle pareti o ad aver impedito che crollassero. Usciamo per così dire dal borgo, verticale sopra il sentiero si alza lo sperone, eretta tra due torri calcaree si erge la facciata della chiesa di San Salvatore, il cielo blu fa da sfondo ad una suggestione che arriva da lontano. Forse vale la pena, prima raccontare la discesa a Camerata Nuova, di dare pochi cenni storici su quella Vecchia, sulla sua origine, sull’insolita posizione, sul motivo del quasi recente e repentino abbandono: Camerata Vecchia, dai documenti rinvenuti, vede le origini attorno agli anni 1000 d.C., attorno all'XI secolo, nel periodo di accastellamento delle valli del Simbrivio e dell’Aniene, in generale delle pendici dei Simbruini; sorse sullo “scoglio della Camerata”, una rupe calcarea sporgente situata a circa 1200m. di altezza; fu inclusa nel territorio dell’Abazia dei S.S. Benedetto e Scolastica di Subiaco e doveva rappresentare una sorta di “castello” di vedetta che doveva controllare il passaggio di “strade” secondarie che dall'odierna "Piana del Cavaliere" portavano all'interno dei Monti Simbruini. Sembra prendere il nome da “camerata” cioè dalle camere ricavate direttamente dalla roccia dello sperone roccioso. Molte abitazioni erano infatti ricavate direttamente all’interno della montagna e chiuse all’esterno con dei muri a secco; solo successivamente vennero costruite case adagiate sul profilo della montagna, costruite con la stessa roccia dello sperone, tanto che da lontano non si distinguono le una dall’altra, abitazioni come siamo abituati a concepirle e dislocate in modo che il borgo prendesse i connotati di un centro abitativo con qualche via che lo attraversava. Le abitazioni avevano tetti in legno, di poche si hanno tracce con tetti di tegole o di pietra. Nel tempo il paese crebbe in misura e in abitanti, contadini pastori, artigiani lo vivevano e non mancò di essere rifugio per i briganti negli ultimi anni della sua storia quando ricoprì un ruolo considerevole nel controllo dei confini tra lo stato pontificio e quello delle due Sicilie. Il 9 Gennaio 1859 rappresenta la data funesta per questo borgo che al tempo, sembra impossibile, pare fosse popolato da circa 1000 persone! Un incendio divampò tanto improvviso quanto violento e distrusse tutto ciò che poteva distruggere, per gli abitanti non restava che abbandonare precipitosamente il borgo e lasciarlo al suo destino. Il resto lo hanno fatto il gelo, il vento, le intemperie e in generale la natura che lentamente se ne è riappropriata, fino al 2011 anno in cui il territorio è stato parzialmente ripulito e recuperato per renderlo fruibile agli escursionisti e ai turisti più esigenti e curiosi. Scivolando intorno ai ruderi e ai resti dei crolli e seguendo le bandierine bianco rosse del CAI si esce da Borgo in direzione Nord, per circa trecento metri un sentiero agevole scende ripido quasi rettilineo tagliando il versante accanto e sotto la rupe calcarea, attraverso una breve interruzione del muro roccioso che si è andato gradatamente assottigliando, il sentiero devia dalla parte opposta, dentro il versante che aggetta sulla valle del fosso Fioio (sulla carta questo sentiero non è riportato se non con delle linee tratteggiate), sul percorso continuano ad essere puntuali ed evidenti i segna via bianco rossi del CAI. Si è passati sul versante Nord dello “scoglio di Camerata”, più boscoso e in ombra, subito molto ripido, diversi tornanti permettono di scendere veloci tanto che in breve si percepiscono tra gli alberi i primi tetti di Camerata Nuova. Il sentiero, quando sembra planare dentro il fosso Fioio, aggira lo sperone, vira verso Ovest, ritorna al sole e si allontana dal paese, si moltiplicano i tornanti ed aumenta la pendenza, una vena umida su questo tratto lo rende scivoloso, non aiuta a frenare la discesa che diventa vorticosa. Convergiamo presto su un tratturo ad uso dei boscaioli e con questo giungiamo a chiudere l’anello nei pressi di fosso Luisa. Ancora una manciata di metri e raggiungiamo il parcheggio chiudendo una escursione che è andata largamente oltre le più belle aspettative (+ 35 min. da Cervara Vecchia). Che dire di questa escursione? I Simbruini si sa sono morbide montagne che il più delle volte non raggiungono quote elevate, offrono dolci rilievi e bellissimi boschi, altopiani silenziosi ed appartati, chi cerca imprese alpinistiche non li ama o non li frequenta. Camerata Nuova da dove siamo partiti si trova ad 800m. è bassa, ma anche la massima elevazione di oggi, cima Camposecco è bassa, per pochi metri non raggiunge i 1500, insomma non è ambiente per chi cerca “l’impresa”. Nonostante questo alla fine della giornata si superano gli 800m. di dislivello e si coprono circa 13 chilometri, il tutto in circa 6 ore di lento e introspettivo passo. Lungo il percorso ci si imbatte nei ruderi di un vecchio borgo, madre di Camerata Nuova, che ha avuto una storia davvero singolare, una chicca per l’anima e per la conoscenza. Dire che siamo appagati di ciò che abbiamo vissuto e visto è poco, mi continuo a chiedere come ho fatto ad avvicinare questo versante dei Simbruini solo oggi dopo tanti anni di escursionismo.